Figlio del mattino Gardner Dozois Premio Nebula per il miglior racconto apparso nel 1984, questo «Figlio del Mattino» è un’ulteriore riprova della bravura di Gardner Dozois. La tecnologia avanza molto più rapidamente del solito in tempo di guerra e quindi, nonostante le nostre aspettative, la Terza Guerra Mondiale, se mai dovesse scoppiare, probabilmente ci sorprenderebbe con armi imprevedibili e fantastiche come quella che Dozois ci presenta in questo piccolo e toccante capolavoro. Gardner Dozois Figlio del mattino La vecchia casa era stata colpita da qualcosa durante la guerra, e quasi completamente rasa al suolo. La facciata era stata schiacciata verso l’interno, come fracassata da un gigantesco pugno: legno scheggiato e ridotto in poltiglia, travi sporgenti a strane angolazioni, come dita spezzate, il primo piano crollato sui resti del pianterreno. Le macerie di un camino coprivano il tutto con un velo di calcina rossa. Sulla destra una breccia aperta attraversava le rovine, scoprendo tutti gli strati di pietra fusa, calcina e legno carbonizzato, ogni cosa arricciata su se stessa come le labbra di una ferita in cancrena. Le erbacce si erano propagate dalla strada su per il basso fianco della collina, dilagando sulla casa, avvolgendo le rovine con fiori di campo e viticci, smussando col verde le ferite della distruzione. Williams portava qui John quasi ogni giorno. Una volta erano vissuti qui, in questa casa, molti anni prima, ed anche se i ricordi di John su quel periodo erano confusi, per lui il luogo sembrava associarsi a qualcosa di piacevole, nonostante fosse ormai un mucchio di rovine. Qui John era felice come non mai, e giocava contento con rametti e sassolini sui gradini di pietra distrutti, o correva schiamazzando tra l’intrico di erbacce che avevano trasformato il prato in una giungla, o per gioco camminava furtivo girando in circoli minacciosi intorno a Williams, mentre lui era occupato a riempire le borse di mirtilli, emerocallidi, patate indiane, denti-di-leone ed altre piante e radici commestibili. Lo stesso Williams provava un vago piacere nel visitare le rovine, anche se ciò risvegliava ricordi che avrebbe preferito lasciare indisturbati. C’era nel luogo una piacevole malinconia, e qualcosa di stranamente riposante in quella mescolanza di vecchia pietra muschiosa e tenero verde nuovo, un ricordo dell’inevitabilità di ogni ciclo — vita nella morte, morte nella vita. John balzò fuori dall’erba alta e corse ridendo verso il punto in cui si trovava Williams con le borse da raccolta. — Ho combattuto con i dinosauri! — disse John. — Quelli grandi e grossi! — Williams sorrise di traverso. — Ma che bravo. — Allungò la mano verso il basso e scompigliò i capelli di John. Rimasero immobili per un secondo, John che ansimava come un cane per il gran scorrazzare che aveva fatto. Williams indugiando con la mano sulla piccola testa arruffata. A quest’ora del mattino, John sembrava non stare mai fermo, un movimento così continuo che dava quasi l’impressione del riposo, come un corso d’acqua che sembra solido fino a che qualcosa non lo fa gorgogliare, ostacolandone il cammino. In quelle prime ore della giornata, John si fermava raramente. Quando lo faceva, come adesso, sembrava congelarsi, il viso intento e stupito, come se stesse ascoltando suoni che nessun’altro poteva udire. In momenti simili, Williams lo studiava con dolorosa attenzione, cercando di vedere in lui se stesso, a volte riuscendoci a volte no, e chiedendosi che cosa lo rattristasse di più e perché. Sospirando, Williams ritirò la mano. Il sole era ormai alto nel cielo, ed era meglio tornare al campo se volevano arrivare in tempo per i lavori più pesanti. Lentamente, Williams si chinò e prese le borse da raccolta, sbuffando un poco sotto il loro peso mentre se le sistemava sulle spalle… questa mattina erano riusciti a fare un buon rifornimento. — Ora vieni, John — disse Williams. — È ora di andare — e si mise in cammino, zoppicando un po’ più del solito sotto il peso imprevisto. John, che lo affiancava sgambettando, sembrò notarlo. — Ti posso aiutare a portare le borse? — disse prontamente. — Posso? Sono grande abbastanza! — Williams gli sorrise e scosse la testa. — Non ancora, John, — disse. — Un po’ più tardi, forse. Uscirono dall’ombra fresca della casa in rovina e si incamminarono verso il campo, seguendo l’autostrada deserta. Ora il sole si era fatto cocente in un cielo senza nuvole, e da qualche parte le cicale cominciarono a frinire, con uno stridore aspro e metallico che assomigliava sorprendentemente a quello di una sega elettrica. Non c’erano altri suoni a parte il mormorio del vento tra l’erba alta e le spighe selvatiche, il fruscio e il sussurro degli alberi, e l’acuto pigolare della voce di John. L’erba si era aperta un varco attraverso il manto stradale… piccole dita verdi che avevano rotto e piegato la superficie della strada, sminuzzandola in blocchi asimmetrici. Ancora pochi anni, e là non ci sarebbe più stata una strada, solo un sentiero appena visibile nel sottobosco… alla fine neppure quello. Il tempo avrebbe cancellato ogni cosa, seppellendola sotto nuovi alberi, costruendo gradualmente nuove colline, creando un paesaggio nuovo per coprire quello di un tempo. Già l’erba e la veccia avevano rosicchiato un po’ degli angoli delle curve più strette, e il vento aveva trasportato il terriccio sulla strada. In qualche punto c’erano degli alberelli, verdi e tremolanti nel mezzo dell’autostrada, come a negare i segnali sbiaditi che indicavano distanze e città. John corse avanti, trovò un sasso da tirare, tornò indietro, correndo intorno a Williams come se fosse legato ad un’invisibile catena. Camminavano in mezzo alla strada, John fingendo che la linea bianca sbiadita fosse una fune, agitando le braccia per restare in equilibrio, gridando a se stesso avvertimenti sulle creature degli abissi che lo avrebbero ingoiato se avesse messo un piede in fallo e fosse caduto. Williams manteneva un’andatura regolare, senza affrettarsi: era il prototipo del vecchio ancora diritto e vigoroso, i capelli candidi scintillanti al sole, un coltello da caccia alla cintura, un vecchio Winchester 30.30 appeso di traverso alla schiena — anche se ormai dubitava che ce ne fosse ancora bisogno. Non erano le uniche persone rimaste al mondo, lo sapeva (per quanto a volte sembrasse proprio così) ma questa regione era stata evacuata anni fa, e da quando lui e John erano tornati da queste parti nel loro lungo viaggio dal sud, non avevano incontrato anima viva. Qui nessuno li avrebbe trovati. Ora lungo la strada c’erano tracce di costruzioni, tutto quello che era rimasto di una cittadina di campagna: la sagoma carbonizzata delle travi di un tetto ricoperta di erbacce; fondamenta di pietra scoperchiate come fossero bastioni per nani; una tubatura d’acqua distrutta ricoperta di ragnatele; un distributore di gas fracassato abitato da uccelli e roditori. Presero una strada secondaria con fondo di ghiaia, oltrepassando i resti bruciati di un’altra stazione di servizio ed un casotto decrepito pieno di rifiuti trasportati dal vento. In alto un semaforo arrugginito dondolava appeso a un filo ricurvo. Qualcuno aveva legato una grossa insegna stregonesca nera e arancione su un lato del semaforo, e sull’altro lato, che puntava fuori dalla città verso il mondo ostile, c’era il simbolo del malocchio, dipinto in un bel rosso vivo su fondo bianco. Le cose erano diventate molto strane durante gli Ultimi Giorni. Ora Williams aveva qualche problema a mantenere l’andatura di John, che procedeva con passo spedito, e decise che era ora di lasciargli portare le borse. John le sollevò senza sforzo, rivolgendo a Williams uno smagliante sorriso che gli scoprì una fila di denti bianchi e robusti, e si mise in cammino verso il campo salendo l’ultimo pendio, inerpicandosi sulla collina con le sue lunghe gambe ad un ritmo che Williams era incapace di sostenere. Williams imprecò benevolmente; John rise e si fermò ad aspettarlo in cima alla salita. Il loro campo era sistemato ben lontano dalla strada, in cima ad un dirupo proprio sopra un piccolo fiume. Una volta là c’era stato un ristorante, ed un angolo dell’edificio era ancora in piedi, due pareti e parte del tetto che necessitavano soltanto di un telone impermeabile teso davanti al lato aperto per costituire un riparo ragionevolmente comodo. Avrebbero dovuto trovare qualcosa di meglio per l’inverno, naturalmente, ma tutto sommato era accettabile per il mese di luglio; inoltre era ben nascosto e vicino ad un corso d’acqua. Intorno a loro, a nord e ad est, si estendevano colline boscose e ondulate. Verso sud, al di là del fiume, le colline degradavano in pianura, e davanti a loro il paesaggio si apriva a perdita d’occhio. Fecero un rapido spuntino e si misero al lavoro, tagliando legna, ritirando le reti che Williams aveva messo nel fiume per prendere il pesce, portando l’acqua per cucinare su per il dirupo fino al campo. Williams lasciava che fosse John a fare gran parte del lavoro più pesante. John cantava e fischiettava allegramente durante il lavoro ed una volta, di ritorno dall’aver portato della legna da ardere al riparo, afferrò improvvisamente Williams sotto le ascelle e, sorridendo, lo sollevò in aria, danzando con lui in cerchio prima di rimetterlo a terra. — Ci sentiamo in forma, eh? — disse Williams con falsa severità, guardando la faccia sudata che gli sorrideva dall’alto. — Qualcuno deve pur lavorare qui — disse John allegramente, e tutti e due si misero a ridere. — Non posso aspettare di tornare alla mia compagnia — disse John con entusiasmo. — Ora sto molto meglio. Mi sento meravigliosamente bene. Staremo qui fuori ancora per molto? — I suoi occhi supplicavano Williams. — Potremo tornare presto, vero? — Certo — mentì Williams, — potremo tornare molto presto. Ma John si stava già stancando. Al crepuscolo i suoi passi cominciarono a diventare strascicati, e il suo respiro si fece pesante e faticoso. Mentre stava tagliando la legna si fermò improvvisamente, posò a terra l’accetta e restò un momento in silenzio, a fissare il nulla senza espressione. Il suo viso si era fatto all’improvviso severo e remoto, ed i suoi occhi spenti. Per un attimo sembrò vacillare, e si passò il dorso della mano sulla fronte. Williams lo fece sedere su un tronco vicino ad un focolare improvvisato. Lui rimase seduto in silenzio a fissare distrattamente il suolo mentre Williams si dava da fare, attizzando il fuoco, pulendo e tagliando il pesce, affettando radici di dente di leone e punte di cicoria, scaldando l’acqua. Ora il sole era calato, e le lucciole cominciavano a fluttuare sul fiume, ammiccando come lanterne magiche nell’oscurità vellutata. Williams fece del suo meglio per suscitare l’interesse di John per la cena, sperando che mangiasse qualcosa mentre ancora gli rimaneva qualche dente, ma John toccò appena il cibo. Dopo pochi istanti mise giù il piatto di alluminio e restò seduto a guardare tristemente verso sud, verso le terre scure oltre il fiume, appena visibili nella luce fioca della luna crescente. Aveva un’espressione tesa e preoccupata, e il suo volto cominciava a incavarsi. I capelli si erano ritirati dalla fronte seguendo un ampio arco, e creando una larga chiazza di calvizie. Tentò varie volte di muovere la bocca e finalmente disse: — Sono stato… male? — Sì, John — disse Williams dolcemente. — Sei stato male. — Non riesco… non riesco a ricordare — si lamentò John. La sua voce era rauca e spezzata. — È tutto così confuso. Non riesco a mettere un po’ d’ordine. Da qualche parte sull’invisibile orizzonte, forse ad un centinaio di miglia di distanza, una colonna di fuoco s’innalzò dall’orlo del mondo. Mentre essi la guardavano stupiti, salì sempre più in alto, torreggiando per miglia nell’aria, fino a che non fu una sottile linea infuocata che divideva in due il cielo nero e cupo, dalla superficie fino alla stratosfera. La colonna di fuoco bruciò ininterrottamente per un minuto o due, poi cominciò a lampeggiare, assumendo sfumature di verde e blu e argento e arancio, colori che brillavano e guizzavano mescolandosi in maniera disordinata. Lentamente, con una sorta di maestosa e terribile simmetria, la colonna si dilatò per assumere la forma appiattita di un diamante di fuoco bianco-azzurrino. Il diamante cominciò a ruotare lentamente sul suo asse, emanando una luce accecante. Enormi forme mai viste fluttuavano intorno al diamante infuocato, come falene intorno alla fiamma di una candela, gettando sul mondo ombre immense e aggrovigliate. Qualcosa simile ad una voce immensa e malinconica gridò, gridò ancora, un suono triste e terribile che rimbalzò più volte tra le colline fino a che, lentamente, non svanì nel silenzio in un brontolio sommesso. La luce sfolgorante del diamante si spense. Al suo posto danzarono stelle bianche infuocate. Le stelle sfumarono in macchie splendenti di un cupo color arancio che sbiadirono ammiccando nei colori dello spettro, e alla fine scomparvero. Era di nuovo buio. La notte era piombata in un silenzio inquietante. Per un poco quel silenzio fu assoluto, poi lentamente, timidamente, uno ad uno, i grilli e le rane ripresero i loro canti notturni. — La guerra è diventata strana — disse Williams con voce calma. — Più si prolunga, più diventa strana. Nuovi alleati, nuove armi… — Fissò l’oscurità nella direzione in cui aveva danzato il fuoco; c’era ancora uno scintillìo inquietante nell’aria notturna sull’orizzonte, non esattamente un bagliore. Sei stato colpito da un’arma del genere, credo. Qualcosa come quello, forse. — Fece un cenno con la testa in direzione dell’orizzonte, e il suo viso si irrigidì. — Non lo so. Non so nemmeno cos’era quello. Non capisco più molto di ciò che succede nel mondo… Forse non è stata nemmeno un’arma, quella che ti ha colpito. Forse stavano facendo esperimenti biologici su di te prima che te ne andassi. Chissà perché? Forse è stato fatto deliberatamente — come una punizione o un premio. Chissà in che modo ragionano? Forse è stato un effetto collaterale di qualche congegno progettato per uno scopo completamente diverso. Forse è stato un incidente; forse ti sei avvicinato troppo a una cosa come quella, subendone gli effetti, qualunque essi siano. — Williams rimase un momento in silenzio, poi sospirò. — Qualsiasi cosa sia successa, dopo sei venuto da me, ed io mi sono preso cura di te. Da quel momento ci siamo sempre tenuti nascosti, spostandoci da un posto all’altro. I loro occhi faticavano a riadattarsi all’oscurità (erano stati entrambi quasi accecati), ma ora, socchiudendo le palpebre alla luce fioca del debole fuoco per cucinare, Williams poteva distinguere John. Ora John era completamente calvo, le guance incavate, e gli occhi spenti e giallastri erano sprofondati nella faccia devastata. Si sforzò di alzarsi in piedi, ma ricadde a sedere sul tronco. — Non posso… — sussurrò. Timide lacrime cominciarono a scorrergli giù per le guance. Si mise a tremare. Sospirando, Williams si alzò e gettò due manciate di aghi di pino nell’acqua bollente, per preparare il tè. Aiutò John a trascinarsi fino al suo giaciglio, sostenendo gran parte del suo peso — era facile: il corpo di John era fragile e raggrinzito ora, e sorprendentemente leggero, come se fosse fatto di stoffa, cotone e rami secchi invece di carne ed ossa. Lo fece sdraiare e gli rimboccò la coperta, nonostante la serata fosse calda, e cercò di fargli bere un po’ di tè. John lo sorbì avidamente prima che le sue dita diventassero troppo deboli per reggere la tazza, e inoltre prima che lo sforzo di tenere la testa sollevata fosse troppo grande per lui. I suoi occhi erano vacui, lucidi, ormai incapaci di vedere, e il suo viso era simile ad un teschio, terreo e chiazzato, la pelle tesa sulle ossa. Le sue mani afferravano inutilmente la coperta; sembravano mummificate, la pelle traslucida come pergamena, le vene sporgenti. Mentre la serata passava lentamente, John cominciò a dimenarsi e a gemere in modo incoerente, agitando la testa con violenza, borbottando frasi e parole spezzate, a volte alzando la voce in un grido strozzato e gorgogliante che non conteneva parole, solo smarrimento, offesa e dolore. Williams sedeva pazientemente accanto a lui, accarezzandogli le mani rinsecchite, asciugando il sudore dalla fronte bollente. — Ora dormi — disse Williams dolcemente. John gemeva e piagnucolava con tono sommesso. — Dormi. Domani torneremo a casa. Ti piacerà, non è vero? Ma dormi, adesso, dormi… Alla fine John si calmò, gli occhi si chiusero lentamente, il respiro si fece più profondo e regolare. Williams sedeva pazientemente al suo fianco, tenendogli una mano sulla spalla per confortarlo. E già i capelli di John stavano cominciando a ricrescere, e le rughe si stavano distendnedo sul viso mentre tornava all’infanzia. Quando Williams fu sicuro che John stesse dormendo gli rimboccò di nuovo le coperte e disse: — Dormi bene, papà — poi non riuscì più a trattenersi e lentamente, in silenzio, cominciò a piangere.